Riposa in pace, articolo 18: togliere a pochi per uccidere tutti
2 Ottobre 2014 da Emilio Contidi Alessandro Robecchi – www.alessandrorobecchi.it
Con la cerimonia funebre dell’articolo 18 si apre un nuovo capitolo di pace, prosperità e progresso per il mondo del lavoro in Italia. Cerimonia all’irlandese: la bara è aperta, il caro estinto pare che dorma e tutti intorno si dedicano ai drink e alle molte speranze che il trapasso di quel vecchio, polveroso, barbogio diritto apre per tutti. Il prete ha parlato chiaro: con la dipartita del vecchio articolo 18 ora tutti avranno di più. Parole nette e chiare: “L’imprenditore deve poter licenziare, se rimani senza lavoro ci pensa lo Stato”. Bene. Odiosi privilegiati come operai attaccati al posto di lavoro, cassintegrati in deroga e cinquantenni in mobilità, non potranno più dettare legge: è il momento di tutti gli altri, ci pensa lo Stato.
Sull’onda di questa solenne promessa, cardine dell’omelia, la cerimonia funebre assume toni garruli e divertiti. Ecco la ragazza che vuol fare un bambino col suo innamorato, lei precaria con contratto di tre mesi, lui in cerca di lavoro. Ora che è morto quell’egoista dell’articolo 18, i loro problemi sono finiti: ora ci penserà lo Stato. Lo stesso Stato che penserà anche al licenziato fresco fresco, perché come ha insegnato la legge Fornero (l’ultimo by-pass messo al vecchio articolo 18, appena due anni fa) ora che licenziare è più facile qualche contraccolpo ci sarà, ovvio, è la vita. Tranquilli, arriva lo Stato e stacca un assegno mensile. Poi ti trova un lavoro. Naturalmente lo Stato penserà anche alle famose partite Iva. Chi ha dovuto aprirla per fingersi libero professionista invece che dipendente licenziabile in cinque minuti ha finito di soffrire. Ora che il vecchio articolo 18 finisce dove merita, avrà anche lui giustizia e prosperità: un sussidio appena l’imprenditore finisce di pronunciare la frase “siamo costretti a fare a meno del suo apporto”.
A credere alla propaganda renziana, insomma, ora che non ci sono più lavoratori di serie A, tutti i lavoratori di serie B festeggiano a champagne: sono finiti i tempi cupi, ora che ad avere i diritti non sono più pochi (non pochissimi, a dire il vero, ma questo la propaganda non lo dice), finalmente li avranno tutti. E’ un abbaglio così clamoroso e grossolano, naturalmente, che non ci credono nemmeno loro. Per pensare a tutta quella gente – disoccupati, cassintegrati, precari tra un contrattino e l’altro, aspiranti mamme, sottoccupati, flessibili a vario titolo, partite Iva mascherate – lo Stato dovrebbe trovare il petrolio, o giacimenti d’oro, o vincere all’Enalotto tutti i giorni per qualche anno. Invece quel che c’è – lo dicono unanimi sia quelli che piangono i vecchi diritti, sia quelli che li hanno ammazzati – è un miliardo e mezzo, meno di quel che si spende oggi per la cassa integrazione. Insomma, basta aspettare un po’: che la veglia funebre finisca, che il caro estinto sia sotto terra, che le corone di fiori appassiscano tristemente. Poi qualcuno, reduce da quel bicchiere di troppo che il lutto ha suggerito, ricorderà le parole del prevosto e si farà avanti a dire: beh, ora che abbiamo levato un diritto a quelli là per darlo a tutti, lo diamo o no? E scoprirà che non ci sono i soldi, che non si può, che mancano i decreti attuativi, che la coperta è corta, che la frase dell’omelia aveva due parti. La prima: leviamo diritti. La seconda: li diamo a tutti. E che nel rimbombo delle navate della cattedrale, la seconda frase si è persa, dimenticata, evaporata. E’ rimasta un’eco, pare che dica: “Bravi! Ci siete cascati ancora!”. E poi: “E’ tutto. Andate in pace”.
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